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29 Aprile 2023
L’età del talento: l’ageism nel mondo della musica.
Andrea Caracciolo
tempo di lettura: 6 min
Nel mondo dello show business si usa molto il termine ageism,
ovvero la discriminazione per una o più persone in base all’età.
Questo capita anche in altri ambienti lavorativi, dove
sembra quasi che essere over 25 sia un problema per gli aspiranti candidati di
una determinata posizione lavorativa. Nel mondo dello show business avere 30
anni a volte sembra un crimine, nonostante si voglia trasmettere sempre il
messaggio per cui l’età è solo un numero. In molti casi, gli artisti per sviare
il problema dell’ageism decidono (forse obbligati anche dalle loro agenzie) di
mentire sulla loro vera età.
Diciamo che nel mondo della musica è evidente che per
un’artista over 25 è difficile emergere, così anche per un’artista over 35 già
conosciuto lo è rimanere sulla cresta dell’onda. Il problema sta nelle
analitiche sugli ascolti, la fascia d’età che contribuisce al successo e alla
popolarità di un’artista in base ascolti/streaming e views è quella che va dai
12 ai 25, poiché è la fascia che usa di più i social e le piattaforme
streaming.
Per le case discografiche è importante trovare artisti che
possano comunicare con la loro musica a quella fascia di età. Gli artisti che
riescono a farlo sono quelli che hanno dai 16 ai 25 anni massimo. Per alcuni
artisti, invece, già affermati e conosciuti, è capitato che, dopo il compimento
del 35esimo anno di età, sono stati vittima dell’ageism da parte delle radio,
propense a suonare di più i pezzi dei cantanti più giovani.
L’ageism si è diffuso a fine anni ‘90 e inizio 2000.
Probabilmente perché in quegli anni la Disney ha portato al successo artisti usciti
da programmi come Mickey Mouse Club, da qui sono nati : Britney Spears che
debuttò a soli 16 anni diventando in poco tempo una fenomeno mondiale; stessa cosa
per Christina Aguilera e Justin Timberlake; nei primi anni 2000 la stessa sorte
è toccata a Miley Cyrus, Demi Lovato, Selena Gomez e i Jonas Brothers. Si è
creato così il movimento del teen pop, in cui gli adolescenti hanno
raggiunto dei fanbase al pari dei Beatles. In seguito, le case discografiche
hanno cercato sempre più adolescenti da poter firmare e rendere dei teen idol.
Gli anni 90’ sono stati l’exploit di artisti under 18 diventati
famosi. Nei decenni precedenti, soltanto Michael Jackson e la sorella Janet
sono stati i primi artisti a diventare famosi ancora minorenni.
Tutti questi teen idol hanno, però, sofferto e pagato questo
successo in età precoce. Basti pensare a tutto ciò che ha invaso i siti di
gossip sulla conservatorship di Britney Spears. I teen idol erano sempre sulle
copertine dei giornali di gossip, ogni cosa creava scandalo e andava a favore
delle case discografiche, forse complici nel creare questi scandali, perché più
erano gli scandali in cui gli artisti erano coinvolti, più le vendite
aumentavano.
I teen idol erano vere e proprie macchine di soldi, ma
nessuno era consapevole che aver privato questi artisti della loro gioventù
avrebbe potuto portare a conseguenze sulla salute mentale di questi. Molto
spesso cadevano nel tunnel delle droghe e alcol, entrando e uscendo dalle
cliniche di riabilitazioni e ricoprendo sempre le riviste di tutti i tabloid.
Questo stile di vita ha dato una scossa positiva ad alcuni
artisti, come è successo a Demi Lovato, la quale dopo la seconda overdose di
qualche anno fa ha preso in mano la situazione cercando in tutti i modi di
uscire dal tunnel delle droghe. Stessa sorte per Britney Spears, che dopo il
suo breakdown del 2007 è ritornata l’anno successivo in splendida forma.
Ma, altre volte gli esiti sono letali. Basti ricordare la
talentuosa Amy Winehouse, caduta profondamente nel tunnel delle droghe e alcol,
bullizzata costantemente dai media e paparazzi che non le davano audience rendendola
quasi un fenomeno da baraccone. Tutto ciò ha avut un esito negativo sulla vita
dell’artista che morì nel Luglio 2011 proprio per colpa dell’alcol e delle
droghe. La pressione subita dall’artista,
molto spesso, è proprio da parte dei familiari, sempre pronti a cavalcare
l’onda del successo e sfruttare l’immagine dei propri figli, firmando contratti
senza la supervisione di avvocati e mettendo i figli in situazioni dalle quali
è difficile uscire senza procedure legali tortuose, oppure a contribuire alla
pressione mediatica per vendere qualche copia in più.
Ritornando all’ageism, non capitava tra gli anni ‘70 e ‘80, quando
era normale vedere artisti over 35 in classifica. Negli anni ’80, ad esempio,
una 45enne Tina Turner raggiunse l’apice della sua carriera ottenendo la sua
prima numero 1 con “What Love Got to do With it” e vincendo addirittura dei
Grammy. Nel 98’, invece, una Cher 52enne, considerata ormai “superata” dal
mondo della musica, stupì tutti con la sua “Believe” che diventò una numero 1 mondiale.
Fu uno shock vista l’età dell’artista, nonostante si parli di un’icona del mondo
dello show business, tanto da farle ottenere il Guiness World Record per
l’artista “più vecchia a raggiungere la numero 1 della Billboard Hot 100”.
Negli anni successivi sono stati pochi gli artisti over 40 a
raggiungere numero 1, soprattutto le donne, solo Madonna e Beyoncé che, con la
sua “Break My Soul”, è diventata la seconda artista di colore ad ottenere una
numero 1 superati i 40 anni in Billboard.
Per via dell’ageism, molti sono stati agli artisti che hanno
mentito ed hanno tolto sempre uno o due anni dalla loro vera età. Solo la
coraggiosa Rosalìa nel 2021 mise a tacere in un’intervista radiofonica i
pettegolezzi sulla sua vera età, confermando il suo anno di nascita che non era
1993 ma 1992, invitando gli ascoltatori a non fidarsi di wikipedia e dei media
in generale. Altro caso eclatante: nel 1998 una appena 30enne Anastacia, riuscì
dopo anni di porte chiuse per via della sua voce non adeguata agli standard di
Mariah Carey, Celine Dion e Whitney Houston, del suo aspetto non proprio da
modella e per via del suo portare gli occhiali da vista. La cantante riuscì ad
ottenere l’opportunità di vita grazie al talent: The Cut. Per partecipare al
talent show, l’artista fu costretta a mentire sulla sua età, presentandosi al
pubblico come una giovane artista di 23 anni. Questa decisione fu presa anche
dalla sua casa discografica, che non poté far a meno di mettere a contratto
l’artista per le sue abilità canore che impressionarono Michael Jackson e Elton
John proprio durante la messa in onda del programma. Quando l’artista debuttò finalmente
nel 2000 con la sua hit “I’m Outta Love” era prossima al compimento dei suoi 32
anni. I rumors sull’età dell’artista erano sempre più evidenti, anche perché
l’artista dava l’impressione di essere a disagio alla domanda <<quanti
anni hai?>>. Probabilmente, l’aver mentito sulla sua età portò la
cantante anche ad essere messa nelle liste nere delle radio americane, cosa che
la portò a non avere mai successo nella sua terra natia, gli USA, dove è
sconosciuta. Questo non ha comunque compromesso il successo di Anastacia nel
resto del mondo, anche se il successo oltreoceano ha sempre dovuto far
aspettare l’etichetta dell’artista nella riscossione delle royalties. L’artista
a termine del suo contratto con Sony e ad inizio del suo contratto con
Universal decise di svuotare il sacco; infatti, nel 2008 la cantante con grande
orgoglio disse al mondo intero che stava per compiere 40 anni. Tutto ciò ha causato
l’ira dei movimenti femministi, soprattutto per il passato dell’artista che la
vide lottare contro un cancro nel 2003 a soli 35 anni, quando per il resto del
mondo l’artista nel 2003 aveva ancora 29 anni. L’ira delle femministe si
tradusse in un messaggio sbagliato sulla di prevenzione.
L’ageism colpisce purtroppo più le donne che gli uomini, è
un dato di fatto. Anche se alcuni artisti uomini sono stati vittima di ageism, come
Eminem e Nelly.
Fortunatamente, l’ageism ha dimostrato negli ultimi anni,
forse anche grazie ai social, che l’età effettivamente non conta, è solo un
numero. Si è voluto parlare così dei late bloomer, altro inglesismo inventato
per etichettare tutti i cantanti 30enni che comunque ce l’hanno fatta anche se
“non giovanissimi” per gli standard.
Il punto è che i late bloomer sono anche la prova che, un
successo raggiunto in un’età matura, come 30 anni, risulta essere più proficuo
e meno stressante di un successo raggiunto prima dei 25. Poiché la maturità
acquisita negli anni e l’esperienza probabilmente consentono di gestire meglio la
pressione.
Al netto di ciò, la domanda che voglio lasciare a voi è: l’età
conta veramente?