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7 Settembre 2024
Carcere: parlarne vale la pena.
Filippo Montemurro
tempo di lettura: 7 min
Il carcere, così come tutto
l’universo che gravita intorno ad esso, è un argomento che mi sta
particolarmente a cuore poiché parlarne è utile per comprendere la società
odierna in tutte le sue dinamiche quotidiane.
Infatti, anche il filosofo
francese Voltaire diceva <<Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le
vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una
Nazione>>.
Le carceri italiane, a partire
dalle infrastrutture, passando per il sistema giudiziario, arrivando alla
permanenza stessa in carcere, sono in una situazione disastrosa. Come vedremo
più avanti, anche l’Unione Europea ha condannato l’Italia per aver lasciato le
carceri – e quindi i carcerati – in una situazione degradante e disumana.
A testimonianza di ciò, c’è il
tasso di recidiva del 70% a cui guardare per comprendere quanto, non solo il
sistema carcerario e giudiziario siano totalmente da riformare, ma quanto sia
addirittura dannoso per i carcerai tanto quanto alle persone in libertà.
Io penso che la situazione delle
carceri italiane sia un tema di primaria importanza tanto quanto quello del
salario minimo, gli affitti alle stelle, l’inflazione e tutte quelle tematiche
che colpiscono le nostre vite quotidianamente.
Approfondendo il tema del sistema
carcerario italiano possiamo notare come questo influisca nelle nostre vite più
di quanto si possa pensare. Per cominciare a parlare di questo argomento
dobbiamo partire dall’articolo 27 della Costituzione Italiana. L’articolo, nel
suo terzo comma, dice che “Le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato”.
Come ho accennato prima, il dato
fornito dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) della
recidiva che si aggira intorno al 70% è molto importante per capire quanto il
sistema carcerario sia in crisi. Questo dato testimonia il fatto che solamente
il 30% di coloro che sono stati in carcere non hanno commesso nuovamente dei
reati. E ancora, ciò vuol dire che il sistema carcerario italiano, al contrario
di quanto afferma la Costituzione, non punta alla rieducazione del condannato.
Anzi, non fa niente affinché il condannato non torni a delinquere una volta
uscito. Stiamo parlando, quindi, di un apparato statale che costa 11 miliardi
(dati del Ministero della Giustizia) alle tasche degli italiani e che funziona
solamente al 30%.
L’altra lettura del dato, infatti,
è che il 70% delle persone che sono state in carcere per aver nuociuto in
qualche modo alla società, una volta usciti dal carcere, torneranno a nuocere
nuovamente. Come se il carcere non gli fosse servito a niente. Ed è proprio qui
il problema.
Il carcere, così com’è concepito
adesso, non solo non serve a niente, ma è dannoso da un punto di vista
economico per lo spreco di soldi e dal punto di vista della sicurezza di chi
sta fuori dal carcere.
Sì, perché per quanto possa
sembrare paradossale, a fare le spese dell’inutilità del sistema carcerario, è
la società fuori.
Per comprendere da dove nasca
questo sistema carcerario e la giurisprudenza penale dobbiamo andare indietro
nei secoli.
Come racconta il filosofo Michel
Facault nel suo libro “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”, negli
scorsi secoli ai condannati veniva inflitta una pena – nel verso senso della
parola – che consisteva nel dover subire la stessa sofferenza che il condannato
aveva fatto subire alla persona offesa. Questa pratica è più comunemente
conosciuta come “occhio per occhio, dente per dente”. Questa idea di far
soffrire il condannato tanto quanto la persona offesa nei secoli ha instillato
nella società l’idea che l’unico modo per punire un condannato e ripagare la
persona offesa fosse quello di far soffrire il condannato, affinché potesse in
qualche modo restituire col dolore ciò che aveva a sua volta fatto subire alla
vittima.
Una volta ripagato col dolore, il
condannato è libero di tornare alla sua vita. Col passare dei secoli, le
società si sono evolute, ma è rimasta comunque l’idea primaria che il
condannato, per pagare il suo errore e sanare la ferita inferta alla società,
debba soffrire.
Anche ai giorni nostri è così.
Anche se ad oggi non si tagliano più orecchie, mani o gambe ai condannati – o
almeno, non in occidente - i condannati vengono comunque messi in una
condizione di sofferenza fisica e psicologica che li può portare anche alla
morte. Mi spingo a dire che sia una sorta di pena di morte applicata nel tempo.
La fallacia di questo approccio è
palese poiché così facendo lo Stato non fa in modo che le persone condannate
non commettano più reati. Punendo le persone col dolore, lo Stato fa in modo
che le persone commettano lo stesso reati, ma stiano più attente a non farsi
scoprire per paura della pena a cui sanno di andare in contro.
Questo perché nell’infliggere la
pena non c’è alcuna intenzione di rieducazione, non c’è alcuna attenzione nello
spiegare al condannato perché ha sbagliato.
L’ex magistrato Gherardo Colombo,
in una sua conferenza, fa l’esempio di quando, da ragazzi, eravamo messi in
punizione e i nostri genitori ci dicevano <<Allora, noi andiamo a fare un
weekend al mare ma tu non uscire perché sei in punizione>> e noi
ovviamente uscivamo di nascosto rientrando in tempo per non farci scoprire.
La stessa cosa avviene nella
società. Lo Stato non ti dice <<Non rubare perché è sbagliato sottrarre
beni altrui>>, lo Stato ti dice <<Non rubare perché rischi tre anni
di prigione>>. In questo approccio non c’è alcuna intenzione di educare i
cittadini, tutt’al più spaventarli e portarli a compiere reati in maniera più
furba. Proprio come dicevo prima. Una volta in galera non c’è alcuna intenzione
di rieducazione, nessuno ti dice <<Hai sbagliato a rubare, non è una cosa
giusta da fare>>.
No, il carcere ti dice <<Ecco,
ora devi stare qui tre anni perché hai rubato>>. Va da sé che una volta
uscito, il ladro, compirà la stessa azione senza farsi scoprire.
Tornando al perché un tema come il
carcere sia di primaria importanza, c’è un altro dato che ci fa comprendere
maggiormente la questione, ovvero il tasso di sovraffollamento.
Stando al CNEL, al 31 marzo 2024,
i detenuti sono 61.049 a fronte di una capienza di 51.178 posti.
Un tasso di sovraffollamento pari
al 130%.
Questi numeri si traducono in una
situazione degradante per gli stessi detenuti, che si ritrovano quindi in celle
di 10mq – “bagno” compreso - insieme ad altri 4-5 detenuti. Spesso, per
muoversi all’interno della cella, è necessario che uno dei detenuti stia sul
letto per permettere al compagno di cella di potersi muovere. In tutto questo,
c’è il problema strutturale della mancanza di risorse, il personale
insufficiente, carceri che non hanno fisicamente una cella in cui poter
apportare le cure mediche necessarie ai detenuti che ne hanno bisogno, una
burocrazia asfissiante che rende complicato anche fare la spesa da parte degli
stessi detenuti.
Inoltre, le celle, a causa della
scarsa manutenzione e del poco ricambio d’aria, presentano infiltrazioni, muffa
e altri agenti naturali che possono far scaturire malattie ai detenuti. Questa
situazione per molti è insostenibile.
La lontananza dagli affetti, una
mancanza di alternativa e una dignità che viene lesa giorno dopo giorno sono
ingredienti che possono portare facilmente un individuo alla depressione e alla
disperazione.
Insomma, tutti ingredienti che
portano ad una situazione veramente al limite e che più volte nel corso degli
anni e molte volte solo quest’anno hanno portato i detenuti a inscenare vere e
proprie rivolte che spesso vengono sedate violentemente dalla Polizia Penitenziaria.
Polizia Penitenziaria che, a onor del vero è, insieme ai detenuti, l’organico
che soffre maggiormente di tale situazione fatta di carenza di personale,
mancanza di fondi ecc…
Come detto da Gennarino De Fazio,
Segretario generale del sindacato UIL Polizia Penitenziaria, <<Le
condizioni di lavoro degli agenti sono assolutamente proibitive. I turni sono
massacranti, arrivano a 24 ore ininterrotte, a causa anche dell’inadeguatezza
dell’organico>>.
Infatti, sono stati numerosi i
suicidi anche da parte del personale di Polizia Penitenziaria nel corso degli
anni.
Dal 2014 al 2022, stando ai dati
dell’Osservatorio nazionale sul fenomeno del suicidio tra gli appartenenti alle
Forze dell’ordine, gestito dall’Associazione Cerchio Blu, gli agenti di Polizia
Penitenziaria suicidati erano 57.
Ma se i numeri degli agenti
suicidati in otto anni fanno spavento, a terrorizzare ci pensa il dato sui
suicidi da parte dei detenuti.
A fine agosto 2024 i dati parlano
di più di 60 detenuti suicidati in cella dall’inizio dell’anno. La tendenza
sembra essere la stessa del 2022, quando i suicidi in carcere a fine anno erano
85. Un record negativo che non è passato inosservato all’Unione Europea, che
già dieci anni prima ha ammonito l’Italia con la storica sentenza Torregiani.
Ed è da allora che siamo sotto l’occhio di bue dell’Unione Europea per via
delle condizioni delle carceri in Italia.
Con quella storica sentenza, la
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha condannato l’Italia per la violazione
dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo dicendo che le
condizioni di vita dei detenuti <<integravano i requisiti necessari per
la sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani e degradanti>>.
Dopo questa sentenza, molti i
detenuti hanno fatto ricorso contro le condizioni in cui erano in carcere.
L’Associazione Antigone,
associazione che da più di 30 anni si occupa della tutela e del rispetto dei
diritti delle persone detenute, fa sapere che sono più di 4000 all’anno i
ricorsi accolti in sede civile. Alessio Scandurra, coordinatore
dell'Osservatorio sulle condizioni dei detenuti all'interno dell'Associazione
Antigone, in un’intervista a FanPage ha detto che <<finché era l’Europa a
condannarci, faceva molto rumore, adesso che ci condanniamo da soli non si
stupisce più nessuno>>. Ed è proprio qui, secondo me, il punto della
faccenda, il fatto che nessuno si scandalizzi più delle condizioni in cui
versano le carceri italiane e di conseguenza i detenuti. Proprio per questo
ritengo che parlare di come scontino gli anni in galera i detenuti… beh, ne
vale la pena.