13 Settembre 2025

L’importanza dell’istruzione e della formazione in carcere.

Filippo Montemurro

tempo di lettura: 6 min

Foto di Nathan Dumlao su Unsplash
L’articolo della Costituzione Italiana che, tra le altre cose, regola e spiega il funzionamento e il ruolo delle carceri è l’articolo 27. Su questo blog spesso mi sono concentrato sulla parte dell’articolo dedicata al trattamento contrario al senso di umanità dei condannati. Questa volta, però, mi voglio esprimere su un altro punto espresso nell’articolo 27, quello in cui è esplicitata la finalità rieducativa della pena. Nell’articolo si può leggere chiaramente che <<la pena deve tendere alla rieducazione del condannato>>. Un concetto, quest’ultimo, che si può mettere in pratica in modalità che implichino l’istruzione, la formazione o addirittura il lavoro per i condannati. Tre opzioni che portano quest’ultimi ad uno sviluppo personale e ad una responsabilizzazione, che può significare un primo passo per una rieducazione finalizzata anche ad un reintegro nella società fuori dal carcere.

Adesso, però, mi vorrei concentrare sull’importanza dello studio per il condannato. I dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria mostrano che nell’anno scolastico e accademico 2023/2024, ad aver frequentato un corso di studio, che sia stato di primo livello, secondo livello o addirittura universitario, a fine giugno 2024 sono stati 20.957, che sui 61.480 detenuti totali al 30 giugno 2024, erano il 34%.

L’istruzione all’interno del carcere si basa sulla collaborazione tra l’istituto penitenziario, gli istituti scolastici di secondo grado e i centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA). I CPIA sono a tutti gli effetti istituzioni scolastiche autonome che organizzano percorsi di primo livello (elementari e medie). Per quanto riguarda l’istruzione di secondo grado (superiori), a gestirla sono direttamente le carceri, gli istituti scolastici, i centri di formazione professionale o gli istituti tecnici.

Ad essere maggiormente frequentati sono i corsi di primo e secondo livello. Elementari, medie e superiori, per intenderci.

In particolare, i corsi di primo livello sono stati frequentati da 11.189 detenuti - di cui 7.410 stranieri. Anche se, rispetto agli iscritti, la percentuale dei promossi è al 34,6%, è comunque importante constatare il fatto che i detenuti scelgono di intraprendere percorsi di studio che aiutino a uno sviluppo personale.

Le percentuali, per quanto riguarda le iscrizioni e le promozioni, sono diverse e maggiormente incoraggianti per gli istituti scolastici di secondo grado. Si tratta, di 8.061 iscritti – di cui 1.555 stranieri – e di questi, i promossi rappresentano il 56,9%. Dati incoraggianti, come dicevo, che rispecchiano la volontà, anche da parte dei detenuti, di studiare e di formarsi al fine di un reintegro all’interno della società una volta scontata la pena.

Il dato delle promozioni nei percorsi di studio di secondo livello è importante, poiché va tenuto conto di elementi di certo non secondari come le condizioni di detenzione, gli spazi ristretti e il sovraffollamento. Quest’ultimi sono fattori assolutamente determinanti e da non prendere sottogamba ai fini dell’analisi dei dati riportati sopra. Anche se il DPR n.230 del 2000 ha introdotto agevolazioni per i detenuti studenti, come il fatto di essere assegnati a celle e reparti adeguati a tenere nella propria cella libri, pubblicazioni ed altri strumenti didattici, non sempre questo diritto viene rispettato. Infatti, a proposito di questo, l’UE nel 2006 ha raccomandato ai Paesi membri di poter garantire ai detenuti una formazione al fine di facilitare la re-inclusione sociale, aumentare l’occupabilità e favorire lo sviluppo personale.

Alla luce di questo, non sono solo gli istituti scolastici di primo e secondo grado ad operare in carcere, ma anche le Università. Infatti, sono stati 1.835 i detenuti iscritti a un corso di laurea nell’anno accademico 2024/2025, circa il 31% dei detenuti totali. Un dato che rappresenta un lieve aumento rispetto allo scorso anno, quando i detenuti iscritti risultavano 1.707.

A fornire questi dati è il CNUPP, la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari. Quest’ultima, istituita nel 2018, rappresenta la formalizzazione del Coordinamento dei responsabili di attività di formazione universitaria in carcere. Ne fanno parte 47 Università italiane da nord a sud ed agiscono grazie ai Poli Universitari Penitenziari (PUP). Quest’ultimi, per definirsi tali, richiedono una struttura dedicata all’interno del Penitenziario e una all’interno dell’Ateneo.

Gli spazi per studiare non sono molti, se teniamo conto dei 190 istituti penitenziari presenti in Italia – di cui 17 per i minori. Sempre il CNUPP è in grado di dirci:

  • che gli istituti che permettono di tenere materiale di studio sono 66, quelli che permettono di tenere un PC personale sono 29,

  • quelli che permettono ai detenuti di essere collocati in celle singole per facilitare lo studio sono 9.

Il tutto, ripeto, tenendo conto che gli istituti in Italia sono 190. Non sorprendono questi dati se si conosce la situazione delle carceri in Italia: circa 61.000 detenuti in 190 strutture che ne potrebbero contenere circa 51.000, ma che effettivamente si ritrovano a stare in 46.000 posti poiché molti non sono agibili per motivi diversi.

Vi sono carceri in cui anche i luoghi che dovrebbero essere adibiti ad infermeria sono stati riadattati in celle (comunque sovraffollate). Pertanto, appunto, non sorprende che i detenuti non abbiano la possibilità di affrontare i loro percorsi di studio in maniera consona.

Basti pensare che dei 190 istituti solo 36 hanno un’aula o delle postazioni informatiche. Solo 9 hanno collegamenti ad internet e, quello che stupisce di più, forse, è che solo 33 hanno una biblioteca con testi universitari.

Il tutto va anche associato a una mancanza di personale, che si traduce con gravi mancanze di sale colloqui con docenti o tutor. Ve ne sono solo 47, infatti, tra i 190 carceri in tutta Italia. Solo 43 di questi hanno sale studio, 27 hanno un’aula per le lezioni e solo 28 hanno supporti didattici digitali. Insomma, i dati del CNUPP ci forniscono un quadro abbastanza sconfortante per quanto riguarda la possibilità di formarsi da parte dei detenuti.

Nonostante questo, comunque, i detenuti che si laureano o che completano un ciclo universitario sono in costante crescita dal 2020 ad ora.

Le università con più detenuti iscritti sono quella di Milano, che ne conta 164, quella di Torino, che contava 152 detenuti iscritti quella di Milano Bicocca, che ne aveva 100. Seguono poi le altre 44 università italiane.

Il CNUPP fornisce anche le aree didattiche che i detenuti preferiscono frequentare all’università. Al primo posto c’è l’area letteraria artistica, al 27%. Segue quella politico sociale, al 17% e prosegue con quella giuridica, al 12%. Le altre aree sono quella economica, agroalimentare, psico-pedagogica, storico filosofica, l’area STEM e infine quella medico sanitaria.

Tra gli iscritti a questi corsi universitari, la fascia d’età maggiormente rappresentata è quella che va dai 41 ai 50 anni, che sono il 30%. I giovani, quelli che vanno dai 18 ai 30 anni, sono solo il 9% degli iscritti. Rispetto ai 1.835 iscritti totali, quasi l’89% di questi affronta un corso di laurea triennale, il 5% un corso magistrale, l’altro 5% un corso magistrale a ciclo unico. Una sola persona risulta stia prendendo un dottorato.

Quello di cui ho parlato finora è importante per capire l’importanza che ha l’istruzione all’interno delle carceri.

Proprio come ha detto Renato Brunetta, Presidente del CNEL, <<l’istruzione e la cultura sono strumenti importanti per la prevenzione di attività criminali e di emarginazione sociale>>.

Sempre il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro testimonia come la recidiva criminale scenda in drasticamente quando i detenuti, durante la permanenza in carcere, hanno effettuato anche altre attività come il lavoro, lo studio o la formazione. Infatti, si parla di dati inerenti alla recidiva che scendono dal 70% nei casi in cui il detenuto non abbia svolto alcuna attività, al 2% nei casi in cui, appunto, il detenuto abbia lavorato, studiato o si sia formato.

Insomma, un detenuto che ha studiato, si è formato o ha lavorato durante lo sconto di pena, è un detenuto che non tornerà a commettere reati. Pertanto, permettere lo studio, la formazione o far lavorare i detenuti sono strumenti utili anche per chi sta fuori affinché la società in cui vive sia più sicura.

Il tema della recidiva è una questione assai importante che dovrebbe interessare tutti noi che siamo fuori poiché, appunto, i dati in merito sono sconcertanti e non ammissibili. Come ho già scritto in un altro articolo, l’Italia spende 11 miliardi per finanziare il sistema penitenziario. Quest’ultimo, come detto all’inizio, non adempie al suo ruolo primario, che sarebbe quello di rieducare i condannati. O almeno, lo fa, ma solo al 30%.

Non so per voi, ma per me sapere che il mio Paese spende 11 miliardi di euro per un sistema che NON funziona per il 70% – insieme a tutti gli altri problemi che ha – è inaccettabile. Il mio auspicio è che l’Italia, anche a costo di dover investire di più a livello economico, si impegni a adempiere al 100% all’articolo 27 della nostra bella, per quanto non rispettata, Costituzione.


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Filippo Montemurro

Ciao! Mi chiamo Filippo e sono un blogger. Parlo di politica interna con un occhio di riguardo per le condizioni delle carceri in Italia.

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