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9 Agosto 2025
La
pena di morte è abolita e deve restarlo. Parte 1.
Filippo Montemurro
tempo di lettura: 5 min
Vorrei introdurre ciò di cui andrò a parlare oggi con un
appunto di carattere personale.
Il mio compleanno è il 30 novembre. Da che ho memoria, io
quel giorno non sono mai andato a scuola e non perché me lo prendessi come
giorno libero in maniera autonoma ma perché la scuola era chiusa. Le scuole
erano chiuse in tutta la Toscana per via della legge regionale numero 26 del 21
giugno 2001 che istituiva, appunto, la festa della Toscana. Questa legge –
abrogata nel 2015 – era un’occasione per
meditare sulle radici di pace
e di giustizia del popolo toscano, per coltivare la memoria della sua storia,
per attingere alla tradizione di diritti e di civiltà che nella regione Toscana
hanno trovato forte radicamento e convinta affermazione […].
La legge, voluta dal Consiglio regionale presieduto
dall’allora Presidente della Regione Claudio Martini, era volta a commemorare
la legge del 30 novembre 1786 promulgata da Pietro Leopoldo di Lorena. La
riforma fece sì che la Toscana – allora ancora granducato – sia stato il primo
Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Ebbene, questa introduzione era doverosa per dire quanto il
tema dei diritti dei detenuti e in generale delle persone private della
libertà, in un certo senso, sia intrinseco nella mia vita. Pertanto, quando
vedo che il Paese in cui vivo ha un tasso di suicidi in carcere che va
crescendo ogni anno (stando all’Associazione Ristretti Orizzonti sono stati 91
nel 2024 e 46 mentre sto scrivendo) non posso fare a meno di indignarmi. E
pensare, per poi parlare. E scrivere del fatto che forse, implicitamente, il
sistema giudiziario e penitenziario italiano, condanni ancora alla pena di
morte.
Parlare di un sistema che porta un ragazzo di vent’anni, Ben
Sassi Fadi, ad impiccarsi. Fadi era un ragazzo che a undici anni era venuto da
solo in Italia dalla Tunisia. Ha viaggiato clandestinamente all’interno di un
camion che trasportava Olio. Una volta in Italia, essendo da solo e vivendo
praticamente per strada, ha intrapreso una strada sbagliata che lo ha portato a
compiere reati sin da quando era adolescente. Ed era proprio per una rapina che
a diciott’anni era entrato nel carcere di Sollicciano, a Firenze. Quest’ultimo
è un carcere che, oltre ai problemi di sovraffollamento, presenta dei problemi
strutturali che lo portano ad essere un inferno sulla terra – ne ho parlato più
volte anche su questo blog.
Fadi era un ragazzo seguito ovviamente da un avvocato ma
anche dai volontari delle varie associazioni che operano all’interno delle
carceri italiane. Gli ultimi ad averlo visto parlano di un ragazzo ormai al
limite, che non sopportava più quella situazione. Sua madre, rimasta in
Tunisia, ha raccontato di averlo visto l’ultima volta tramite una videochiamata
che si è interrotta per mancanza di connessione. Fadi era rinchiuso nell’ottava
sezione dell’istituto, quella in cui più volte sono state trovate delle cimici
e in cui più volte è stata denunciata la mancanza di acqua corrente nelle
celle. Piccoli elementi, certo, ma che sommati ad un disagio psicologico acuito
dal carcere, possono portare, come detto, un ragazzo di soli vent’anni a
impiccarsi.
Fadi era a Sollicciano – un carcere per adulti – per reati
che, sommati tra loro, portavano ad avere una pena di due anni, dieci mesi e
ventisei giorni. In particolare, si tratta di reati che andavano dalla rapina
alla resistenza a pubblico ufficiale. Gli mancava poco più di un anno per
tornare in libertà, ma ha preferito uccidersi.
Questa che ho provato a raccontare brevemente è la storia
che più mi ha colpito per via dell’età giovane del ragazzo, della storia
personale extra penitenziaria e perché il suicidio di questo ragazzo è avvenuto
a Sollicciano, a 10 km da casa mia, nella mia Regione, nella Regione che per
prima al mondo ha abolito la pena di morte. Ahimè, però, di storie come quella
di Fadi ce ne sono a migliaia nelle carceri italiane. Ragazzi suicidatisi a 24
anni, come Radion Robert Octavian, che si è impiccato nel carcere di Verona.
Dhouiou Amir, di 21 anni, suicidatosi nel carcere di Marassi, a Genova. Hamga
Yousef, 19 anni, impiccatosi a Pavia. Spolzino Giuseppe, di 21 anni, che si è
impiccato nel carcere minorile di Paola (CS) oppure Sofiane Alì, 19 anni,
impiccatosi a Novara. Questi sono solo alcuni dei nomi delle numerose persone
che l’anno scorso si sono suicidate all’interno delle carceri italiane. Tra
queste non ci sono solo ragazzi di diciannove o vent’anni. A suicidarsi nelle
carceri vi sono anche persone di quaranta, cinquanta, sessanta, settanta ma
anche 81 anni. Quest’età aveva Urbisaglia Vincenzo, detenuto nel carcere di
Potenza per l’omicidio della moglie. Si è suicidato dopo che, qualche giorno
prima, il Gip aveva respinto l’istanza di scarcerazione chiesta dai suoi legali
per via dello stato psicofisico dell’uomo, non ritenuto compatibile col regime
carcerario.
Ed è proprio questo il punto: la compatibilità di alcuni
detenuti col regime carcerario.
Molte delle persone di cui ho accennato sopra - ma
soprattutto tra le persone di cui non ho accennato sopra – vi sono soggetti che
risultavano incompatibili col regime carcerario per via della loro condizione
psicofisica. Stando ai dati forniti dall’Associazione Antigone i detenuti che
presentano un disagio psichico grave sono circa il 12% (circa 6000 detenuti).
Le persone in carcere che presentano patologie psichiche sono in costante
aumento e a dirlo sono gli operatori di Polizia penitenziaria che lavorano
negli ATSM (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale), dei luoghi –
all’interno del carcere – in cui i “rei folli” e i “folli rei” (come vengono
tutt’ora chiamati in gergo tecnico i detenuti che presentano neurodivergenze)
possano espiare la pena.
Queste articolazioni sono state istituite dopo la chiusura
degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e servono per trattare la
patologia mentale all’interno del carcere.
Come abbiamo visto all’inizio con la storia di Fadi, spesso,
una volta in carcere, sei condannato a questo: a suicidarti, perché non hai
alternative né dentro e né fuori.
Dove chiedere aiuto: se sei in una situazione di
emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri
suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet
da qui (www.telefonoamico.it), tutti i giorni dalle 10 alle 24. Puoi anche
chiamare l’Associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle
13 alle 22.