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20 Aprile 2024
La zona d’interesse, ovvero la banalità del male.
Francesca Dondoli
tempo di lettura: 5 min
Era il 1961 quando una delle
storiche e filosofe più influenti dello scorso secolo, Hannah Arendt, emigrata
dalla Germania in Francia nel 1933 a causa delle persecuzioni contro gli ebrei,
si è recata a Gerusalemme come inviata del New Yorkerper assistere allo
storico processo contro Adolf Eichmann.
Il tristemente noto gerarca
nazista doveva rispondere di quindici imputazioni avendo commesso crimini
contro il popolo ebraico, contro l’umanità e crimini di guerra durante il
regime nazista.
In particolare, dopo una lunga carriera
nelle SS, nel 1942 era diventato coordinatore e responsabile dei carichi di
deportati verso i campi di concentramento e sterminio in vista della cosiddetta
“soluzione finale”: lo sterminio degli ebrei.
È stato, quindi, tra i principali
esecutori materiali dell’Olocausto.
Insomma, ci si aspettava di vedere
un mostro, di certo non un essere umano nel pieno delle sue facoltà mentali. E
invece le testimonianze di Arendt hanno dato vita a un libro tanto fondamentale
quanto scomodo, perché «pone le domande che non avremmo mai voluto porci, dà
risposte che non hanno la rassicurante certezza di un facile manicheismo».
Mi riferisco a La banalità del
male – Eichmann a Gerusalemme.
«Il Male che Eichmann incarna
appare alla Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi
servitori […] non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo
secolo non hanno la “grandezza” dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e
ci somigliano» (descrizione del libro citato di Hannah Arendt, a cura di feltrinellieditore.it).
Ecco, se volete cercare di comprendere
quello che Arendt ha cercato di dirci vi consiglio di guardare La zona
d’interesse, il film di Jonathan Glazer fresco di premio Oscar come miglior
film internazionale. Pellicola per cui personalmente tifavo, senza nulla
togliere ad altri bellissimi film in gara. Anzi, quest’anno la scelta era
proprio ardua!
Ma La zona d’interesse, per
me, non è solo un documento d’importanza storica e sociale, come del resto l’Io
capitano di Garrone, in gara per l’Oscar nella stessa categoria. Rientrano
entrambi a pieno titolo in quei cosiddetti film che andrebbero fatti vedere
nelle scuole.
La zona d’interesse ha quel
potere che, in fin dei conti, pochi film hanno davvero: quello di lasciare un
segno. Non so se nella collettività, cosa che mi auguro, anche perché è un film
difficile e disturbante soprattutto, se si guarda semplicemente in un’ottica di
puro intrattenimento o nella storia del cinema in generale; anche se Alfonso Cuarón
l’ha definito il film più importante del secolo e Steven Spielberg il migliore
sull’Olocausto, dopo il suo Schindler’s List, ovviamente!
La zona d’interesse,
dicevo, ha lasciato un segno nella mia coscienza che credo non potrà mai essere
cancellato. Ricordo tutt’ora, come fosse ieri, la prima volta che ho guardato
quel capolavoro di Schindler’s List, a scuola (per l’appunto!) alle
medie. Qualche annetto è passato, ma ricordo perfettamente quel momento, i
compagni al mio fianco, la durezza delle sedie su cui eravamo seduti
imparagonabile a quella del film, della storia. Non ero più la stessa.
Ecco, credo che il destino de La
zona d’interesse sia lo stesso. Perché di bei film ne ho visti dall’inizio
dell’anno, ma questo è quello che dal cinema mi sono portata a casa. Così come
da scuola mi sono portata a casa Schindler’ List.
I film sulla Shoah sono talmente
tanti che forse si potrebbe parlare di un vero e proprio genere a sé. Ma non aspettatevi
le emozioni provate guardando Schindler’s List o altri film sul tema più
distanti dalla realtà della storia, come La vita è bella, che resta comunque
tra i miei preferiti al punto che mia madre mi dà ancora il buongiorno con «Buongiorno
principessa!».
No no, qui emozioni di quel tipo lasciano
il posto alla realtà vissuta da chi quegli orrori non li ha subìti, ma
perpetrati.
Attenzione: la parte seguente potrebbe
contenere spoiler.
La storia non è quella di Eichmann,
ma quella della famiglia di un altro gerarca nazista: Rudolf Höss, comandante
di Auschwitz. Ed è proprio lì che è ambientato il film. Ma non all’interno del
campo di concentramento, di quello si vedono soltanto mura, fili spinati, torri
di vedetta e fumo che esce dalle ciminiere.
Sappiamo già ciò che avviene lì
dentro e, per raccontarcelo, il film affida tutto all’uso geniale del sonoro
che, infatti, gli è valso l’Oscar anche nell’omonima categoria: urla, rumori di
spari e cani che abbaiano fanno da sottofondo a tutta la storia.
Ma cosa c’è al di là del muro
di quell’inferno?
La bellissima villa della famiglia
Höss, con un grande giardino dotato di piscina, orto e serra per le piante.
C’è tutto il bello che la natura
può offrire: alberi, verdure e fiori colorati gestiti con grande cura. Immersi nella
bellezza di questo paradiso, che emerge ancor di più dal contrasto con lo sfondo
grigio provocato dal fumo che viene dal campo, giocano con spensieratezza i figli
degli Höss: si rincorrono, guidano una macchinina, fanno il bagno in piscina.
A volte invitano degli amici che
poi se ne vanno contenti e grati per il divertimento e l’«ospitalità
nazionalsocialista» ricevuta.
Dentro casa, la signora Höss si
prova vestiti e oggetti di altre persone, quelle al di là del muro, che poi
diventano argomento di chiacchiere con le amiche davanti a una tazza di tè. Intanto,
il marito in un’altra stanza parla di lavoro con i colleghi, discutono di un
modo per ottimizzare e rendere più efficienti i forni crematori, farci entrare
più persone in una mandata.
Quando non lavora insegna al
figlio più grande ad andare a cavallo nelle praterie circostanti oppure vanno
tutti insieme a fare un picnic in riva al fiume. I pasti condivisi insieme
all’insegna dell’amore e della spensieratezza sono sempre abbondanti e
invitanti. La madre di lei va a trovarli un giorno, ma poi se ne va perché non
sopporta il puzzo che c’è nell’aria, dopo essersi comunque compiaciuta con la
figlia per come “si è sistemata”.
Insomma, se non conoscessimo la storia
forse potremmo parlare di questo film come di una sorta d’inquietante distopia
ambientata in futuro in cui gli essere umani non sono più capaci di provare
amore e pietà se non per i propri simili. E invece è realtà.
Tornata dal cinema, non conoscendo
la storia della famiglia Höss, mi precipito a vedere quanto c’è di vero. Tutto.
La geniale scena finale ci fa
vedere anche alcune parti di Auschwitz di oggi, mentre alcuni addetti svolgono
le ordinarie pulizie del museo, così come ordinario era percepito da Rudolf
Höss e dagli altri gerarchi nazisti il proprio lavoro.