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1 Giugno 2024
E tu l’hai letto? Dare la vita.
Yelena
Castellino
tempo di lettura: 5 min
Vi capita mai alla fine della
lettura di un libro, della visione di un film o di una rubrica al telegiornale,
di desiderare una conversazione con altre persone riguardo la vicenda?
Per il semplice piacere di
scambiare pareri e immaginare prospettive diverse dalla nostra.
Oggi, ad esempio, mi sono
soffermata su una questione di natura medica di estrema delicatezza e
attualità.
La mia domanda nasce dopo aver
letto il libro postumo di Michela Murgia, “Dare la vita”che, devo
ammettere, mi ha fatto storcere il naso diverse volte.
Premesso che condivido tanti
pensieri, lo stile verbale e la scrittura dell’autrice, ma su questo tema sono
proprio in totale disaccordo.
La domanda è: cosa ne pensate
della GPA?
E qui sarei curiosa di sentire
come vi comportereste se vi chiedessero di essere parte attiva a tale pratica.
Ma prima di tutto spieghiamo di
cosa stiamo parlando.
Per GPA si intende la Gestazione
Per Altri. Se non avete mai sentito quest’espressione, probabilmente la
riconoscerete nella versione più rozza di “utero in affitto”.
Quest’ultima definizione non
lascia molto spazio all’immaginazione; in breve, si tratta di portare avanti
una gravidanza per terzi, correndo tutti i rischi del caso e sperando che
nessuna delle parti cambi idea su chi debba crescere il bambino.
Non si tratta certo di una
passeggiata. Si parla di vita, salute, medicina, leggi, responsabilità, spese e
tutto quello che comporta l’esistenza di un essere umano.
A questo punto mi preme dire che
mi sottraggo da ogni corrente politica, teologica, moralista e sociale e
affronto l’argomento soltanto facendomi guidare dalla mia coscienza, la quale
rimarrà l’unico punto fisso della mia vita.
Tutto il resto può cambiare. Un
giorno potrei svegliarmi e convertirmi ad un’altra religione, potrei
simpatizzare per un’altra corrente politica o potrei cambiare Paese e adattarmi
ad altre mentalità, ma la coscienza mi accompagna da quando ero bambina e mi
accompagnerà sempre.
Sono diventata madre in giovane
età, desiderando di avere un bambino praticamente da quando ero piccolissima e
sono stata fortunata, perché è andato tutto benissimo: concepimento,
gravidanza, parto.
Ma sapevo bene, attraverso
racconti diretti di esperienze di amiche e di familiari, che non è sempre
facile.
Il desiderio di maternità può
diventare ossessione.
E l’ossessione di avere un bambino
può trasformarsi in una forma di egoismo esasperante.
Per come la vedevo io, se questo
bambino fosse arrivato, bene.
Avrei fatto la mamma e mi sarei
assunta questa enorme responsabilità incondizionatamente.
La mia vita avrebbe cambiato
corso.
Ma se questo bambino non fosse
arrivato, amen.
Avrei continuato a vivere
dedicandomi al mio lavoro, ai miei studi, avrei girato tutto il mondo, avrei
dormito molto di più, avrei semplicemente fatto le esperienze che erano più
consone a quello stile di vita.
Ma il tutto era per me naturale,
allo stesso modo in cui dovrebbe essere naturale mettere al mondo un bambino.
Come facevano le nostre nonne,
bisnonne e intere generazioni prima di loro.
<<Se devono arrivare,
arrivano>>, mi dicevano sempre.
Ed era vero.
Ma io sono io e ho il mio modo di
vedere le cose, come avrete capito, molto semplice, pacato, cerco sempre di
vedere il risvolto della medaglia.
Adesso però mi chiedo, se
questa voglia di maternità fosse diventato un chiodo fisso anche per me cosa
avrei fatto?
La prima soluzione che mi viene in
mente è l’adozione.
Poi avrei anche pensato alla
fecondazione assistita, un tentativo, due al massimo, non di più.
E poi?
Poi basta.
Se non riesco per vie naturali,
per vie legali e per vie mediche, ci metto una bella pietra sopra e penso ad
altro.
Ma di sicuro non mi sarebbe mai
passato per la mente di chiedere ad un’altra donna di portare in grembo quello
che poi sarà mio figlio.
Né tantomeno porterei in grembo un
figlio che poi dovrò consegnare ad un’altra coppia di genitori (scusate ma non
trovo altro verbo più adatto).
Non lo farei per tutto l’oro del
mondo.
Adesso il mio ragionamento da
madre.
Come posso separarmi dal
bambino che ho creato dopo nove lunghi mesi e dopo averlo dato alla luce con
dolore?
Chi è madre capirà che fare un
bambino è un processo lungo e intenso.
È come costruire un mosaico. Ogni
giorno il mio corpo crea una tessera e per farlo impiego sangue e forze vitali.
Un’energia che notte e giorno lega le cellule materne a quelle fetali.
Io sento crescere la vita dentro
di me e l’essere umano che porto dentro sente me.
Sono l’unica cosa che conosce.
Il battito del mio cuore, il suono
della mia voce, l’andatura oscillante del mio passo, la mia mano che accarezza
il pancione, il sapore del cibo che mangio, le acque in cui galleggia sono, in
quel momento, tutto quello che ha.
Tutto quello che si è creato in
quei nove mesi, resta impresso dentro le nostre cellule anche anni dopo che è
avvenuta la nascita.
È un legame che nessuno dovrebbe
mai dividere o spezzare.
E se io questo bambino lo do
alla coppia che lo aspetta o, viceversa, lo prendo dalla mamma che me lo sta
creando, avete idea del trauma che crea?
È come se cancellassi
all’improvviso gli ultimi nove mesi della mia vita causando una ferita che non
si chiuderà mai.
E di questo ne sono più che
convinta.
A soffrire di più sarebbe, secondo
me, la madre biologica che non continuerebbe il suo ruolo di madre, che non
abbraccerebbe il suo bambino, che non lo nutrirebbe dal suo seno, che si
sentirebbe all’improvviso svuotata, che guardandosi allo specchio non riconoscerebbe
il suo corpo sformato, che non potrebbe accettare i cambiamenti avvenuti in lei
prendendosi cura del suo bebè.
Come si sente una madre
biologica che pratica la GPA?
Chi le dà un sostegno
piscologico?
Chi si mette nei suoi panni?
Queste domande mi hanno assillato
per ore e quando ho finito di leggere il libro ho avuto la sensazione che
l’amore, che deve accompagnare il percorso di nascita di una madre e di un
bambino, venisse in secondo piano.
La madre biologica è realmente
consapevole di quello a cui andrà incontro?
Probabilmente no, perché non
bastano solo un paio di forbici a tagliare il cordone tra madre e figlio.
Un bambino ha bisogno della sua
mamma, ma è la mamma che ha ancor più bisogno del suo bambino, per consolarlo
quando piange, per asciugare le sue lacrime, per vederlo crescere, per imparare
entrambi i misteri della vita.
Interrompere tutto questo è fuori
dalla mia visione delle cose.
Chi non è passato attraverso la
voragine della maternità e della paternità non può minimamente capire cosa si
provi e mi fa anche un po' sorridere che queste questioni vengano sollevate da
chi è all’oscuro di certe esperienze.
Chi di voi sarebbe disposto a
strumentalizzare il proprio corpo in cambio della felicità remunerata di
un’altra persona?
Mi sono soffermata solo su questo
argomento che, nel libro è trattato, ovviamente, in maniera più approfondita
con diversi esempi e altre questioni.
Io l’ho analizzato da un punto di
vista strettamente personale.
Se volete avere una panoramica un
po' più vasta sulle questioni della maternità, in chiave moderna, immergetevi
nelle cento e poco più pagine del testo che vi ho citato sopra.