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16 Novembre 2024
Il diritto alla community e il Digital Services Act.
Irene Procopio
tempo di lettura: 4 min
Oggi più che mai, l’appartenenza ad una o più community è un aspetto importante della nostra socialità virtuale. A volte succede per caso, altre siamo proprio noi a ricercare le community per sentirci parte di un gruppo di persone con cui condividiamo qualcosa.
Esistono diverse tipologie di community:
community di luogo, ovvero la comunità locale, che prevede la prossimità fisica dei membri;
community di interesse, cioè individui che hanno un interesse o una passione in comune, interessanti per chi si occupa di community management perché hanno diversi, frequenti e corposi scambi di opinione e idee sull’argomento che li accomuna per lavoro o altre ragioni;
community di supporto che possono costituirsi autonomamente o sotto la spinta dell’azienda e supportano apertamente l’azienda e/o i suoi prodotti/servizi (un esempio è “Apple support community” nata online su spinta dell’azienda);
community nella pratica, caratterizzate da individui accomunati dalla stessa professione in un certo settore che condividono scambio di conoscenza e opinioni.
Nel cercare di inquadrare a livello normativo le community, dobbiamo necessariamente passare per la contrattualizzazione delle norme di comportamento che i proprietari dei siti web o app possono imporre nel rispetto della normativa nella loro piattaforma online. A questo proposito le tipologie di policy utilizzabili sono: i termini e condizioni d’uso e il codice di condotta. La normativa che si occupa di questo è il Digital Services Act.
Il Digital Services Act (DSA) è un Regolamento dell'Unione europea che modernizza e amplia la Direttiva sul commercio elettronico 2000/31/CE in relazione ai contenuti illegali, alla pubblicità trasparente e alla disinformazione.
Il DSA prevede che i fornitori di servizi digitali informino gli utenti sui propri meccanismi di moderazione dei contenuti, in modo che gli utenti possano comprendere come vengono gestiti i contenuti illegali. Chiaramente in un’ottica garantista, la normativa non entra nel merito delle modalità specifiche in cui le community devono essere regolamentate e si limita a stabilire che la regolamentazione debba essere fatta per trasparenza e garanzia di rispetto della normativa in generale, come ad esempio per vietare la pubblicazione di contenuti illeciti. Non esiste, quindi, uno standard di riferimento o un modello tipico previsto.
Pur non occupandosi del caso specifico della regolamentazione, ma anzi demandandola alla contrattualistica in generale, il DSA, così facendo, ammette l’esistenza delle community e le riconosce quali aggregatori sociali 3.0.
È interessante notare, inoltre, che il DSA non lascia libero il campo al proprietario della piattaforma online, perché gli impone il rispetto della normativa applicabile; e qui entra in gioco il diritto di stampa.
<<Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure>> Art. 21 Cost.
Sembrerebbe, infatti, che la piattaforma online rientri nell’<<ogni altro mezzo di diffusione>> e che, quindi, debba essere garantita a tutti la possibilità di pubblicare contenuti. Implicitamente, allora possiamo dedurne che siamo liberi di pubblicare contenuti nelle piattaforme online nei limiti di legge e che il proprietario del sito o app non possa in alcun modo limitare la nostra creatività se non nel caso in cui violiamo la legge.
Scrivere le policy però non basta per creare una community, servono, infatti, ulteriori elementi per poterla identificare come tale.
In una community online tutti gli utenti possono e sono incoraggiati a creare contenuti per condividere valore, secondo una modalità di interazione many to many, cioè dove ogni persona parla ad altre persone su uno stesso livello. I membri della community devono avvertire un senso di appartenenza, cioè, sentirsi parte di un movimento, un gruppo di persone con cui condividono valori, passioni e obiettivi. Alla base della community ci deve essere la condivisione reciproca, può essere uno scambio di conoscenze, confronti costruttivi o esperienze vissute. In ultimo, la piattaforma online deve essere adatta a ospitare una community.
Come per internet, anche per le community vale la regola dell'1% (detta anche principio 90-9-1, o rapporto 89:10:1), ovvero:
il 90% dei membri è composto da “lurker”, cioè persone che leggono e osservano senza intervenire mai;
il 9% interagisce con i contenuti ma non ne crea;
solo l'1% dei membri della community pubblica dei contenuti.
Nel regolamentare la community, però, non ci si riferisce solo a quell’1% che pubblica contenuti, ma anche a coloro che possono commentare i vari post o pubblicazioni.
In definitiva, possiamo dedurne che il diritto alla community è sancito dal Digital Services Act che ci impone il rispetto della normativa nei limiti del diritto di stampa, il che ci lascia ampio margine nella libera espressione del nostro pensiero in una community online.